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Al tema della riforma del sistema hanno lavorato in questi anni, almeno in certi casi alacremente, singoli studiosi, tecnici, governi, istituzioni internazionali, authority e commissioni di vario tipo e colore, nonché il G-8 e il G-20. Ma si può certamente affermare, come del resto è noto a tutti, che i risultati di questo lavoro appaiono ad oggi veramente modesti, tranne forse in qualche area, quale quella della ricapitalizzazione delle banche, tema sul quale le cose sembrano stare andando avanti in maniera che si può giudicare dignitosa, anche se con tempi certamente un po’ lenti.
Una delle questioni sul tappeto sulla quale sembrava si fosse manifestata, a livello internazionale, una sostanziale convergenza di idee e di propositi riformatori, è quello della lotta ai tax-haven, ovvero ai rifugi (o paradisi) fiscali, come sono conosciuti da noi. Alcuni governi si sono a suo tempo dichiarati molto determinati nel volere combattere il fenomeno –ricordiamo ancora, ad esempio, la rabbia manifestata ad un certo punto da N. Sarkozy sul soggetto-. Ricordiamo a questo proposito che, tra l’altro, l’esistenza dei tax haven tende a minare la base fiscale degli stessi stati.
Così molto presto il G-20 è apparso deciso ad occuparsi solennemente della questione. Tale organismo, in una sessione tenuta già nel 2009 a Londra, sull’onda della spinta venuta da molte parti, aveva deciso di intervenire operativamente. Ne era nata, tra l’altro, l’idea di spingere i numerosi paradisi fiscali a firmare, sulla base dei criteri in proposito fissati dall’Ocse, dei trattati bilaterali di cooperazione nella materia con i vari stati interessati.
Ecco allora che nel novembre del 2011, ad un’altra riunione del G-20, questa volta a Cannes, lo stesso segretario generale dell’Ocse, A. Gurria, poteva solennemente affermare che l’iniziativa del G-20 era stata un sostanziale successo, che l’era del segreto bancario era finita e che non era più possibile nascondere le ricchezze o i redditi senza rischiare di essere facilmente scoperti. Ma ora si scopre che le cose non sembrano stare proprio così. Un articolo apparso di recente sul Guardian a firma S. Bowers sembra da questo punto di vista abbastanza rivelatore.