L’arte europea, un’arte della rappresentazione - di Alain de Benoist
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L’arte europea, un’arte della rappresentazione - di Alain de Benoist
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Intervento di Alain de Benoist, filosofo, politologo e saggista, al secondo colloquio dell’Institut Iliade, Parigi, Maison de la Chimie, 25 aprile 2015. La maggioranza delle religioni del mondo, non soltanto quelle indoeuropee o pre-indoeuropee dell’Europa antica, ma anche quelle dei Sumeri e dei Babilonesi, dell’Egitto e della Mesopotamia, dell’India, dell’Estremo Oriente, dell’Africa nera e delle Americhe, hanno manifestato nel corso della loro storia la preoccupazione di dare ai loro dei una rappresentazione figurativa. La Bibbia fa eccezione. Il divieto di produrre immagini divine costituisce, nel Decalogo, il secondo comandamento: “Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra” (Esodo 20,4, sullo stesso tema anche Deuteronomio 5,8). Il motivo che sta dietro questo divieto, ribadito a più riprese nel testo della Torah, è quello di bandire e combattere l’idolatria. Nella Bibbia, tale proibizione di immagini fisiche è in rapporto immediato con il divieto di culto degli idoli (óved àvoda zara). Il posto occupato dal succitato comandamento nelle Tavole è a tale proposito significativo e per meglio comprenderlo serve leggere l’intero passaggio: “Non avrai altri dei di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra il suo favore fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandi” (Esodo 20, 3-6). La prescrizione iconoclasta, una prescrizione biblica e poi islamica Considerando il periodo dell’antichità, bisogna pensare a questi divieti quando si cercano le ragioni dell’indignazione suscitata, sotto Ponzio Pilato, dalla presenza in Giudea delle insegne romane recanti l’aquila imperiale e soprattutto lo scandalo provocato dall’Imperatore Caligola che avrebbe voluto innalzare una statua che lo raffigurava dentro al Tempio di Gerusalemme, decisione che sarebbe stata la scintilla per un’insurrezione generale e che solamente la morte improvvisa del sovrano poté evitare. Tacito scrive degli Ebrei: “Essi non possono tollerare la presenza di effigi divine nelle loro città e ancora meno nei loro templi”. Il divieto successivamente verrà interpretato talvolta in maniera estesa (interdizione da ogni tipo di immagine) e talvolta in maniera restrittiva (vengono tollerate talune raffigurazioni). Nella tradizione rabbinica questa seconda tendenza apre la porta a numerose discussioni sulla distinzione tra ciò che è permesso e ciò che è vietato. Alcuni (Schulchan Aruch, Yoreh Deah 141, 4-7) sostengono che solo l’immagine intagliata o scolpita sia da condannare, o ancora che solo sia vietata la raffigurazione del corpo umano per intero, restando così accettabili i busti o i ritratti. Per Maimonide la scultura è l’unico tipo di raffigurazione proibita mentre la pittura è accettata. Rabénou Acher, altra voce rilevante in materia, precisa come, a suo dire, nel caso di statue anche soltanto la rappresentazione parziale del corpo umano sia illecita. Talune autorità talmudiche fanno poi una distinzione fra la rappresentazione per scopi di conoscenza (per esempio quella necessaria alla ricerca scientifica),che è autorizzata, e la rappresentazione in sé e per sé, che invece è vietata. Questa prescrizione iconoclasta si ritrova nella religione islamica, anche se le sue basi teoriche sono più fragili. Chiaramente il Corano denuncia di frequente l’idolatria (al-âçnâm) ma è anche vero che i termini immagine (çûra) e rappresentazione (rasm) sono, si parli in via generale, assenti dal contesto. Tuttalpiù si possono riscontrare certi passaggi dove gli idoli sono assimilati a statue o steli, la cui venerazione è ovviamente proibita (XXI, 52 ; XXXIV, 13). Bisogna arrivare alla tradizione islamica dei secoli VII e VIII, e alle raccolte di hadith codificate nella seconda metà del IX secolo, per trovare dei testi più espliciti. Al-Bukhâri,per esempio, riporta certe affermazioni del Profeta Maometto che risultano innegabilmente ostili alle rappresentazioni: “Gli Angeli non entrano in una casa in cui vi sia un cane o un'immagine (timthâl)” (34,40); “Colui che fabbrica un’immagine verrà punito da Dio fin “Fra coloro che subiranno i tormenti più strazianti, una volta arrivato il giorno del giudizio, vi saranno coloro che hanno creato rappresentazioni figurate” (78, 75). Serve a questo punto citare anche la celebre fatwa di Nawawi, risalente al XIII secolo: “Le grandi autorità della nostra scuola e di altre ritengono che la pittura dell’immagine di un qualsiasi essere vivente sia strettamente proibita e costituisca anzi uno dei peccati capitali (…) È vietato fabbricarne in qualsiasi circostanza, in quanto tale attività implica una copia dell’attività creatrice propria solo di Dio”. Su tali propositi non vi può essere ambiguità di sorta. E poiché non esiste alcuna teologia islamica dell’immagine, quest’ultima, nella tradizione mussulmana così come in quella ebraica, è quantomeno osservata con sospetto. Un rifiuto della misura dei sensi Il testo biblico, come già sottolineato, evidenzia un legame netto fra il divieto di immagini e la necessità di lotta all’idolatria. Questo termine polemico – nessuno mai si è definito da sé come idolatra – non si incontra a conti fatti che nel Nuovo Testamento. Nella Bibbia dei Settanta, la parola idolo (eidôlon) si usa per tradurre non meno di trenta diverse parole dall’ebraico e si deve a Tertulliano la creazione della parola latina idolatria. Tuttavia il senso assunto nel cristianesimo è diverso da quello assunto nell’ebraismo: nel linguaggio della Chiesa, l’idolatria designa qualsiasi forma di adorazione non dovuta a creature diverse dal Creatore (il “trasferimento alla creatura del rispetto dovuto al Creatore”, scrive Gregorio di Nazianzo). Negazione, cosciente o meno, del fossato che separa l’essere non creato da quello creato, viene qui rilevata una teoria della sostituzione o meglio ancora della metafora. Nel linguaggio biblico invece per idolatria si considera qualsiasi forma di culto straniero. Ecco perché in primo luogo la lotta all’idolatria si traduce nell’imperativa distruzione fisica dei culti delle altre nazioni: “Quando il mio angelo camminerà alla tua testa e ti farà entrare presso l'Amorreo, l'Hittita, il Perizzita, il Cananeo, l'Eveo e il Gebuseo e io li distruggerò, tu non ti prostrerai davanti ai loro dei e non li servirai; tu non ti comporterai secondo le loro opere, ma dovrai demolire e dovrai frantumare le loro stele” (Esodo 23, 24) e ancora“Anzi distruggerete i loro altari, spezzerete le loro stele e taglierete i loro pali sacri. Tu non devi prostrarti ad altro Dio, perché il Signore si chiama Geloso: egli è un Dio geloso”(Esodo 34, 13-14). La proibizione dell’immagine va però messa anche in rapporto con la svalutazione di ciò che permette di ammirarla: lo sguardo. Serve qui ricordarsi che l’udito e la vista sono due modi per donare e ricevere il cui carattere è completamente diverso: mentre le parole si rivolgono all’intelletto, le immagini si volgono alla sensibilità. Nel suo modo d’essere, il Dio biblico fa appello a una facoltà dell’animo che eccede la misura dei sensi. Ecco perché la tradizione biblica tende a sminuire la vista a favore dell’udito, che regola un modo di comprendere in maniera più astratta, meno legato al sensibile e che soprattutto implica un ragionamento di tipo concettuale o analitico. L’importanza di questa nozione riguardante l’udito si rivela nello chemaquotidiano, che si recita con la mano sugli occhi per meglio ascoltare e per impedire di vedere. Dal Deuteronomio 6, 4: “Chema Israël Adonaï Elohénou, Adonaï Ehad” (“Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo”). Nel suo libro su Mosé, Sigmund Freud spiegava già che “il progresso spirituale” del quale è testimonianza il monoteismo, doveva essere considerato come un “ritirarsi della percezione sensoriale a favore di una rappresentazione che conviene chiamare astratta”; ciò spingeva Freud a interpretare il culto delle immagini nei termini di “regressione culturale”, ovvero ritorno agli “dei del politeismo”, che per lui erano principalmente rappresentati dalla “Grande Dea Madre”. Più avanti, nel cristianesimo, l’apparenza sensibile – e in primis quella della carne, fonte di voluttà – sarà considerata come la fonte stessa della concupiscenza e del peccato. La forma sensibile è tentatrice; è il male travestito da bellezza e da ciò ne deriva che la bellezza è sempre passibile di corruzione morale. La tematica della “femme fatale”o della “bellezza diabolica”, ha trovato terreno fertile nell’idea che la donna fosse prima di tutto tentazione in quanto ella, più dell’uomo, rappresenta qualcosa di sensibile, qualcosa che suscita desiderio già solo al mostrarsi. Si tenga a mente questo legame tra la femminilità, la vista e la forma sensibile. Lo si ritroverà ogni qualvolta il culto delle immagini verrà ritenuto un abbandono alla seduzione carnale, ovverosia un ritorno al primato del materiale sul concettuale o l’astratto. Calvino nel suo Institutio christianae religionis scriverà: “Giammai l’uomo si spinge ad adorare immagini se non quando ha concepito una qualche fantasia carnale e perversa”. Per il monoteismo, riassume Régis Debray, “solamente la parola può essere verità, la visione è il mezzo attraverso il quale il falso può esprimere la sua potenza. L’occhio greco è gioioso, quello giudeo non è altro che un organo infausto, portatore di sventura e che non augura nulla di buono. Un cieco nel deserto dei monoteisti può essere re, ma un re greco che perda la vista perde anche la propria corona. L’occhio è, biblicamente, l’organo dell’inganno e